venerdì 4 settembre 2009

Il cinema

Andare al cinema non significa propriamente uscire. Gli altri è quasi come se non ci fossero. L'essenziale è quella specie di titubanza ovattata che proviamo entrando nella sala. Il film non è cominciato, una luce da acquario smorza le conversazioni felpate. Tutto è smussato, vellutato, attutito. Con i piedi sulla moquette, ci precipitiamo con finta disinvoltura verso una fila di poltrone vuote. Non si può dire che ci sediamo e neppure che ci adagiamo sul sedile. Dobbiamo ammansire quel volume rigonfio tra il compatto e il soffice. Ci accomodiamo con piccole mosse voluttuose. E intanto il parallelismo, l'orientamento verso lo schermo uniscono l'adesione collettiva al piacere egoistico.
Ma la condivisione si ferma qui, o quasi. Che cosa sapremo di quell'omone disinvolto che legge il giornale tre file avanti? Forse che ride, nei momenti in cui non ridiamo; o peggio ancora che rimane in silenzio quando invece ridiamo noi. Al cinema non ci riveliamo. Usciamo per nasconderci, per acquattarci, per sprofondare. Siamo sul fondo della piscina e nel blu tutto proviene da quella finta scena senza profondità, abolita dallo schermo. Nessun odore, nessuno spiffero di vento in questa sala inclinata verso un'attesa piatta, astratta in questo spazio concepito per deificare una superficie.
Cala l'oscurità, si illumina l'altare. Ci mettiamo a galleggiare, pesci dell'aria, uccelli dell'acqua. Il corpo si intorpidisce e diventiamo campagna inglese, strada di New York o pioggia di Brest. Siamo la vita, la morte, l'amore, la guerra, immersi nel cono di un fascio di luce dove danza il pulviscolo. Quando arriva la parola "fine", rimaniamo prostrati, in apnea. Poi si riaccende la luce insopportabile. Bisogna tirarsi su nella bambagia e scrollarsi verso l'uscita come sonnambuli. Soprattutto non buttiamo subito lì parole che stroncano, giudicano, sottolineano. Sulla moquette vertiginosa, aspettiamo pazientemente che l'omone con il giornale sia passato davanti. Conserviamo, per qualche secondo, goffi cosmonauti, quella strana assenza di gravità."

Philippe Delerm (La prima sorsata di birra)

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